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Il rapporto di lavoro subordinato può estinguersi per una pluralità di cause, ovvero:

  • Scadenza del contratto a termine;
  • Mutuo consenso delle parti;
  • Impossibilità sopravvenuta della prestazione;
  • Morte;
  • Recesso.

In caso di rapporto di lavoro a tempo determinato, quando sopraggiunge la scadenza del termine inserita all’interno del contratto, essa comporta l’estinzione automatica del rapporto senza che vi sia la necessità di alcuna manifestazione di volontà delle parti.

Vi è poi il caso in cui il rapporto di lavoro viene ad estinguersi per “mutuo consenso” delle parti (art. 1372, c. 1, c.c.) che dà luogo alla c.d. risoluzione consensuale del contratto. In questo caso non è previsto alcun vincolo di forma, quindi l’accordo risolutivo può essere raggiunto oralmente o per fatti concludenti.

L’estinzione può avvenire poi per impossibilità sopravvenuta della prestazione, ovvero quando la prestazione diventa impossibile per cause non imputabili alle parti, in tal caso solitamente assume particolare rilievo la sopravvenuta inidoneità fisica del lavoratore che determina la cessazione del rapporto di lavoro nel momento in cui l’impossibilità sia a durata indeterminata (ad eccezion fatta per le ipotesi espressamente previste dagli artt. 2110 e 2111 c.c.) e il datore di lavoro non possa oggettivamente adibire il lavoratore a mansioni differenti (anche inferiori) che siano compatibili con il sopravvenuto stato fisico del lavoratore.

Se il rapporto invece si estingue per morte del lavoratore, in tal caso la legge prevede la tutela dei familiari superstiti, attribuendo in capo al datore di lavoro l’obbligo di versare loro il TFR accantonato fino al momento della morte, nonché l’indennità sostitutiva di preavviso (art. 2122 c.c.). A differenza della morte del lavoratore, la morte del datore di lavoro solitamente non determina la cessazione del rapporto ovviamente questo ove l’attività aziendale continui nella persona del nuovo titolare subentrato al de cuius.

Infine vi è il “recesso”, quest’ultima è sicuramente la modalità più comune che solitamente viene ad attuarsi, il recesso nello specifico viene inteso come quell’atto unilaterale e recettizio attraverso il quale si manifesta la volontà di una delle due parti del contratto di porre fine al rapporto di lavoro; nello specifico se il recesso avviene su iniziativa dal lavoratore prende il nome di “dimissioni”, mentre se l’atto avviene su iniziativa del datore di lavoro prende il nome di “licenziamento”.

Nel corso di un rapporto di lavoro a tempo determinato, ad entrambe le parti del rapporto non è consentito l’utilizzo di tale strumento prima del termine del contratto stesso, salvo che venga a verificarsi un evento dal quale derivi una “giusta causa”, ovvero un atto o un fatto grave, che vada a ledere profondamente il rapporto fiduciario tra i soggetti in modo tale da non consentire la prosecuzione del rapporto di lavoro.

In caso di rapporto di lavoro a tempo indeterminato invece, per il lavoratore subordinato vige il principio di “libera recedibilità”, mentre il recesso del datore deve essere giustificato. La parte recedente deve comunque osservare l’obbligo di preavviso in modo tale che la parte che patisce il recesso non si trovi all’improvviso alla rottura del contratto. In caso di mancato preavviso la parte recedente è tenuta a corrispondere all’altra un’indennità equivalente all’importo della retribuzione che sarebbe spettata nel periodo di preavviso. L’obbligo di preavviso tuttavia non sussiste se le dimissioni o il licenziamento avvengono per “giusta causa”, in questo particolare caso infatti, se il recesso avviene su iniziativa del datore, egli dovrà erogare nei confronti del lavoratore un’indennità sostitutiva e se a recedere invece è il lavoratore egli mantiene sempre il diritto a percepire l’indennità sostitutiva.